Il Colosseo illuminato ieri notte è stato il simbolo suggestivo della campagna che lega mille città del mondo contro la pena di morte, alla vigilia della votazione all’Onu per una nuova moratoria. Tanta gente in piazza – grazie a Dio – in questa grande battaglia che accomuna cattolici e laici, sinistra e destra. Chissà tuttavia se, tra tante luci, se ne è accesa una contro la morte sentenziata per Eluana Englaro.
Eppure quella che si vuol infliggere alla Englaro è morte data a una persona viva, che autonomamente respira, benché in stato vegetativo. I genitori di Terri Schiavo hanno chiesto che nessun altro muoia mai più come la figlia, nella stesso stremato abbandono. Ma la morte che pende su Eluana è, nella mente di non pochi italiani, qualcosa che non turba, e certamente non indigna come le sedie elettriche e le forche che in tante parti del mondo fanno alacri il loro lugubre mestiere. Questo benché i giustiziati, almeno in teoria, siano di qualcosa colpevoli; mentre Terri Schiavo ed Eluana Englaro sono certamente innocenti.
La morte comminata dentro una logica retributiva è – grazie a Dio – sempre meno accettabile per la coscienza del mondo. La morte, invece, data ‘per pietà’ al malato considerato inguaribile, sebbene lunga e straziante come quella per fame e per sete, in Occidente non scuote. È, sostanzialmente, ‘buona’: misericordioso è giudicato, e perfino tra alcuni cristiani, interrompere vite inerti, ‘irrecuperabili’, quando al di là di ogni ragionevolezza si ostinino, quelle creature, a respirare.
Uccidere Caino è intollerabile, uccidere inermi Abele in stato vegetativo è pietà: «Così smetteranno di soffrire». Un accento, dunque, umanitario in questa pretesa.
C’è però un fatto storico che dovrebbe mettere in dubbio questo tipo di umanitarismo. La filosofa ebrea Hannah Arendt dopo aver seguito a Gerusalemme il processo al nazista Eichmann spiegò dettagliatamente ne ‘La banalità del male’ che le prime camere a gas, costruite in Germania nel ’39, non accolsero subito gli ebrei: il decreto di Hitler del primo settembre di quell’anno le prevedeva infatti per «concedere alle persone incurabili una morte pietosa». I primi ‘beneficiati’ furono infatti cinquantamila tedeschi malati di mente. Solo due anni dopo si passò alla ‘soluzione finale’.
La morte ‘pietosa’ per gli alienati linearmente si saldò con l’Olocausto. Un non detto, atroce retropensiero, evidentemente accettato da molti in Germania, alimentava però già la soppressione dei folli e degli idioti: e cioè che si è uomini solo se coscienti, se lucidi, capaci di intendere. Certo, nulla a che fare tra la Weltanschauung abiet del nazismo e quella, distratta e buonista, nostra. Noi siamo pacifisti, ci sgomentano i boia, ci indigna ogni crudeltà verso gli animali. Solo per pietà ammettiamo la morte provocata: del feto deforme, della ragazza da tanti anni addormentata. Perché? Perché in fondo non li consideriamo ancora, oppure non più, pienamente uomini, giacché privi di coscienza. Anche i poveri folli del Reich non erano pienamente coscienti.
Il passo radicale sta nel non riconoscere l’uomo. Che è sempre, sul patibolo, ma anche inerte in un letto, uomo, e dunque qualcosa di molto più grande di ciò che può fare o capire. Per i cristiani, immagine di Dio. Parallelamente all’avanzante collettivo oblio di questo nesso, la morte data a un malato incosciente non è più una condanna inammissibile, ma magnanima pietà – la stessa poi, in fondo, che si avrebbe per un cane malato.
di Marina Corradi (Avvenire, 30 novembre 2008)