Nel dibattito interno al riconoscimento e alla tutela della vita dell’uomo all’inizio della sua esistenza ci sorprende un paradosso: a chiamare in causa la fede (in particolare quella cattolica) non sono i credenti, ma coloro che asseriscono di non esserlo. Una fede senza ragioni e contro la ragione, si dice. Così le argomentazioni di quanti si oppongono al referendum, vengono espropriate della loro dignità razionale 8biologica e filosofica ed esiliate in una «isola della fede», luogo del puro esercizio di una credulità popolare soggetta all’autorità ecclesiastica. Questa rappresentazione caricaturale della rifflessione antropologica ed etica dei credenti (ma non solo di essi) sul rispetto dovuto all’embrione umano non fa certo onore alla cultura di chi la promuove: uomini e donne che sanno di filosofia e della sua lunga storia, e del robusto contributo di pensatori anche cristiani a quel nobile esercizio della ragioneche si apre alla realtà tutta (fino alle soglie del mistero di Dio) senza rinunciare alle esigenze logiche ed epistemologiche della ricerca della verità. Si può non essere d’accordo con loro, ma i cattolici non sono degli sprovveduti quanto alla ragione né degli orfani del pensiero scientifico e filosofico. La questione dell’inizio della nostra vita indivudule non è questione di fede. Occorre dirlo e ribadirlo. Come potrebbe una questione così radicale e dicisiva per la società e per ciascuno di noi (padri, madri o figli che siamo) non essere accessibile alla ragione, cioè a tutti? Lo ha lucidamente riconosciuto Giovanni Paolo II: «Si tratta, infatti di un valore che ogni essere umano può cogliere anche alla luce della ragione e che perciò riguarda necessariamente tutti» (enciclica Evangelium vitae, n. 101). Squalificare come “assurdità” ciò che la ragione del credente (e non) arriva a riconoscere attraverso la riflessione sull’esperienza e sulla conoscenza scientifica della vita umana non apre una partita leale tra posizioni divergenti, ma elimina a tavolino la squadra avversaria prima che essa scenda in campo. La questione va invece giocata a tutto campo e con una sola regola: la ragione, la finestra attraverso la quale l’uomo si apre alla realtà secondo la totalità dei suoi fattori. Se c’è qualcuno che «evade il problema» – come ha denunciato Sartori—questo non è «la Chiesa di Papa Wojtyla», che ha affrontato la delicata questione dell’inizio dell’esistenza di ciascuno di noi da lungo tempo e con un abbondante esercizio di ragionevolezza. La conclusione si trova in Evangelium vitae: “Come un individuo umano non sarebbe una persona umana?”.
Un pasticciamento (come è stato chiamato) esiste, ma non è quello tra fede e ragione. La confusione non nasce dall’aver violato un principio attribuito da un editoriale a Tertulliano, che da lui non ci è però mai giunto. Ciò che confonde è la mancanza di quello ceh si rimprovera essere assente nella posizione avversata: la logica. Essa ha il suo fondamento in due principi, le regole d’oro della logica: il principio di identità e quello di non contraddizione.
Principi laicissimi se non altro a motivo della loro origine nella storia del pensiero, che precede l’era cristiana. Per il principio d’identità, essendo il processo di sviluppo dell’individuo umano continuo, dalla fecondazione all’adulto (solo la morte o la crioconservazione dell’embrione ne arrestano la crescita), come posso non identificare il mio “io” in ciò con cui esso è in continuità sostanziale e senza l’esistenza del quale (o con la morte del quale) non sarei quello che sono? L’embrione umano è uno di noi perché ciascuno di noi è stato uno come lui.
Il Comitato Nazionale di Bioetica, organismo laico nel quale non mancano uomini di ragione scientifica e filosofica, nel 1996 ha così espresso le proprie unanimi conclusioni sull’identità e lo statuto dell’embrione umano: «Gli embrioni non sono mero materiale biologico, meri insiemi di cellule: sono segno di una presenza umana che merita rispetto e tutela, secondo i criteri che si devono adottare nei confronti delgi individui umani».
Anche il principio di non contraddizione vuole la sua parte nella logica di un’argomentazione. Se davvero la sola differenza qualificativa (e, dunque, eticamente e giuridicamente rilevante) tra la vita di un uomo e quella di un animale consistesse in due tra i suoi attributi,m l’essere presente a se stesso (autoconsapevolezza) e il soffrire anche “psocologicamente” dovremmo trarne tuttle le logiche conseguenze. Se non lo facciamo, perché ci sembrano assurde, sorge una contraddizione. Una di queste conseguenze è la seguente: la nostra umanità viene meno ogniqualvolta nella nostra vita non siamo presenti a noi stessi enon facciamo l’esperienza della sofferenza nonostante una lesione fisica. Il neonato, il paziente in anestesia generale, chi è sotto l’effetto di farmaci psicotropi, l’anziano demente, il cerebroleso – sono solo alcuni tra le possibili situazioni – verrebbero esclusi dal rispetto e dalla tutela che sono dovuti all’essere umano, in quanto considerati “vita animale”. Ci sembra troppo? A questo punto, cui ci ha condotto la logica, l’unico modo per tirarci indietro è ritornare alle premesse del ragionamento e vedere se esse non siano errate.
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